CORRIERE DELLA SERA - 23 luglio 2020 (Roberta Scorranese)
violenza di genere, mille volti
e la difficoltà di denunciare
un sostegno dalla tecnologia
La miniserie televisiva (Netflix) dal titolo Unbelievable è un affresco molto fedele ma soprattutto articolato della violenza di genere: c’è una giovane donna vittima di stupro che non viene creduta nè dagli inquirenti nè dalla propria comunità; c’è il pregiudizio che scatta facilmente nei confronti di vittime dal passato difficile; c’è la reticenza a infrangere le barriere protettive degli «insospettabili» uomini violenti, specie se a condurre le indagini sono due donne.
Perché la violenza di genere non è riassumibile nell’immagine di un occhio nero, sebbene questa sia una realtà che resiste e viene confermata dalle statistiche secondo le quali siamo ancora di fronte a un problema strutturale della società (nel 2019 ogni tre giorni e mezzo è stata uccisa una donna).
«Ci sono la violenza psicologica e quella economica, ci sono le pressioni che riguardano i figli. Forse è il momento di guardare ai dati e alle storie assieme, allargando lo sguardo, includendo tutte le forme di abuso» ha detto la vice direttrice vicaria del Corriere della Sera, Barbara Stefanelli, aprendo ieri l’evento digitale «Una luce nel buio — Contro la violenza domestica e le molestie», in diretta streaming dalla sala Buzzati, nella sede milanese del quotidiano.
La pandemia e l’abuso
Organizzato in collaborazione con Vodafone Italia, il dibattito è servito sia a lanciare Bright Sky — una app che aiuta chi subisce violenza (ma anche le persone attorno) a valutare il rischio nel tempo e a individuare un percorso di sicurezza online — sia a mettere insieme le forze per trovare risposte efficaci. Perché ci si chiede: la pandemia ha peggiorato le cose? Durante il lockdown le violenze sono diminuite? «Purtroppo no — ha chiarito Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere —. Anzi, numerose donne hanno avuto più difficoltà nel chiedere aiuto». E la zona del «sommerso» è aumentata.
Il fenomeno della violenza di genere e domestica si è ulteriormente aggravato durante la quarantena, registrando un aumento delle richieste di aiuto ai centri antiviolenza. Unbelievable?
No, perché la sensazione, fortissima, è che l’emergenza sanitaria stia diventando il pretesto per accantonare le questioni di genere e di inclusione, perché «ci sono cose più importanti a cui pensare», si dice. Peccato che le cifre raccontino altro. In un videomessaggio, il direttore della Fondazione Vodafone Andrew Dunnett ha precisato che prima di arrivare a sporgere una denuncia in media una donna subisce 34 episodi di abuso. Trentaquattro. Questo sì che è da non crederci.
Il peso della tecnologia
La coabitazione forzata però ci ha insegnato una cosa: non basta più un numero di telefono, perché può essere difficile telefonare se il marito/compagno sorveglia notte e giorno.
Per Aldo Bisio, amministratore delegato di Vodafone Italia «La tecnologia avrà una parte importante nella vita delle nostre comunità. Credo soprattutto in tre direzioni. Per costruire una sanità moderna resiliente e flessibile, attraverso ad esempio la chirurgia da remoto, la telediagnostica, le ambulanze connesse o il monitoraggio di pazienti critici non direttamente negli ospedali. C’è poi il tema delle citta digitali, nelle quali le comunità vivono e interagiscono con criteri di sicurezza, di facilità di utilizzo delle infrastrutture cittadine, decisamente migliorate rispetto al passato. E infine l’assistenza per gli anziani dove, attraverso ad esempio il monitoraggio da remoto è possibile migliorare la qualità della vita delle persone assicurando maggiore indipendenza».
Una società smart che voglia davvero ripartire non può prescindere dal ruolo attivo delle donne e dei più giovani, come ha ricordato Stefanelli. Ma quanto siamo lontani da questo?
Le asimmetrie
Potremmo usare una sola parola per comprendere che cosa non va, che cosa blocca le energie necessarie a un nuovo sviluppo: asimmetria. Tra uomini e donne, nei rapporti «di potere, di coppia, di conoscenza, di forza economica», dice Valente.
Come ha ricordato Giusi Fasano, inviata del Corriere della Sera, «queste asimmetrie non sono esterne agli abusi ma, osservando i casi, si integrano con il disagio». Osservazione condivisa da Jill Morris, ambasciatore britannico presso la Repubblica Italiana. Morris ha messo l’accento sul «difficile equilibrio tra l’immagine della donna come elemento dal ruolo attivo nella società e quello della donna che subisce violenza». È un filo sottile che richiede sensibilità e intelligenza, così come la «fondamentale rete di aiuto alle donne in difficoltà», specie quelle che provengono da altri Paesi.
Se la richiesta di aiuto inibisce anche una persona con una perfetta padronanza della lingua e della cultura italiana, figuriamoci le altre. Così la tecnologia, come ha sottolineato Marinella Soldi, presidente Fondazione Vodafone Italia, «può e deve aiutare le strutture presenti sul territorio a parlarsi e a entrare in connessione. Bright Sky è l’esempio di come il digitale e la connettività possano contribuire a migliorare la qualità della vita». Centri antiviolenza, forze dell’ordine, associazioni e presidi ospedalieri: Valente ha ricordato che senza tutto questo, la sola azione repressiva non produrrà cambiamenti strutturali.
La consapevolezza
Più volte, nel corso del dibattito, è emersa l’importanza della consapevolezza dell’abuso. Davvero quello che mi fa è una forma di violenza? Davvero non sto confondendo una bizza caratteriale con qualcosa di più grave?
Purtroppo queste sono domande che molte donne si pongono perché sono (ancora) reticenti nel chiedere aiuto, come ha confermato Francesca Garisto, vice presidente di CADMI, Casa di Accoglienza delle donne maltrattate: «Quello dell’ascolto della vittima è un momento fondamentale. Ogni caso ha una storia a sé e il sostegno richiede sensibilità per comprendere le singole vite. Spesso queste donne sono isolate. Ma altrettanto importante è agire su chi usa violenza». E su questo ci sono dati confortanti: appena il 10 per cento degli uomini che agiscono violenza rifiutano di essere parte di programmi di rieducazione. «Un dato importantissimo — ha detto Francesco Messina, direttore Centrale Anticrimine della Polizia di Stato — ma è su quel dieci per cento che ci dobbiamo focalizzare, possibilmente trovando una sinergia tra istituzioni e soggetti privati, insomma aiutandoci a vicenda».
Come si interviene
Alessandra Simone, primo dirigente della Polizia di Stato e da anni impegnata su questo fronte, ha spiegato che quando le forze dell’ordine intervengono (magari dietro segnalazione dei vicini) esiste un protocollo che garantisce le donne. «Non si cerca assolutamente la mediazione, perché non sono affari di famiglia. La donna viene ascoltata non davanti al presunto autore di violenze e si tutelano i figli». Una cosa da tenere a mente: quel contatto potrebbe essere l’ultimo. Una nota importante: durante il lockdown solo il 28 % delle richieste di aiuto provenivano da donne che si rivolgevano ai centri anti violenza per la prima volta. Come leggere questo dato? C’è il rischio che la quarantena abbia abbassato la soglia di quante sono pronte a denunciare.
Tutto il dibattito ha dipinto un quadro articolato, complesso, che chiede una riposta da più parti. E Lucia Annibali, avvocata, deputata impegnata nella battaglia contro le violenze di genere, ha sottolineato come oggi «non si possa non partire da uno sguardo il più largo e solido possibile. Nel decreto Rilancio, per esempio, abbiamo fatto includere un sostegno contro la violenza economica e che aiuti le donne a gestire le risorse. La mia storia e la mia esperienza in Parlamento mi portano a dire che dobbiamo, ancora, fare molto di più